Det Sjunde Inseglet (1957) di Ingmar Bergman

mi viene proposto di vedere questo film, all'arena, in una calda sera d'agosto....come fare a rinunciarvi?




Quando l'Agnello aprì il terzo sigillo, udii il terzo essere vivente che gridava: «Vieni». Ed ecco, mi apparve un cavallo nero e colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano. E udii gridare una voce in mezzo ai quattro esseri viventi: «Una misura di grano per un danaro e tre misure d'orzo per un danaro! Olio e vino non siano sprecati »
apocalisse 6,5

1957 uno dei migliori anni per il cinema: Quel treno per Yuma, Le notti di Cabiria, Orizzonti di gloria, Il ponte sul fiume Kwai, Il grido, Il posto delle fragole; è quindi ben immaginabile la situazione nella quale questo film arrivò nelle sale (senza dimenticare che era ancora ben vivo il ricordo del secondo conflitto mondiale): un film che parla della morte, almeno superficialmente, facendo in realtà vedere come una serie di personaggi affrontano la propria vita, finendo per doversi confrontare anche con la Morte (destino comune a tutti gli esseri umani). Il film è stato girato in meno di un mese, con un budget risicatissimo, con un sacco di problemi (per la troupe come per gli attori); c'è solo da immaginarsi come sarebbe venuto se ci fosse stato un budget più alto. 
La storia è nota e stranota: un cavaliere templare torna dopo 10 anni di crociate e incontra la morte sulla spiaggia, decide di sfidarla a scacchi per guadagnare un pò di tempo.
Il titolo è biblico, tratto dal brano dell'apocalisse di SanGiovanni, ma di biblico nel film, oltre qualche citazione, c'è ben poco: tutto il film è, in pratica, lo scontro tra il cavaliere e il suo scudiero, uno scontro tra fede e ragione rapportato ad ogni aspetto della vita che questi due personaggi incontrano nel loro tentativo di tornare a casa. Quello che manca però, in maniera totale e assoluta è la dicotomia bene-male: nessuno dei due ha torto e nessuno ha ragione, ognuno ha le sue ragioni; e questo vale anche per l'incontro-scontro tra Antonius e la Morte, dove non ci sono vincitori né vinti, ma solo più o meno abili parti che arrivano ognuna al proprio obiettivo: per il primo ritardare un pò l'inevitabile (sa benissimo che anche una vittoria non potrebbe mai portare alla vita eterna), per la seconda arrivare all'inevitabile. 
La pellicola è molto teatrale, sia per le origini artistiche del regista che per l'origine dello script, essendo una "traduzione" sul grande schermo di una pièce teatrale dello stesso Bergman di qualche anno prima. Insieme alla teatralità non manca però una cura spasmodica verso la messa in scena: la fotografia è da urlo, con un bianco e nero scurissimo, ma mai cupo; la regia è divina, non a caso questo è uno dei 10 migliori film della storia, almeno finora. Non è tragedia né commedia: il protagonista (anche se il film è molto più corale di quanto sembri) è un Dante omerico, o un Ulisse dantesco, che vaga in cerca di risposte, senza trovarle, ma incontrando tanta gente e analizzando in parte la società che lo circonda, proprio come Dante: la battuta riferita a chi ha pensato la crociata che di certo sarà rimasto in panciolle a casa non è affatto delicata. Non è neanche un horror, nonostante la presenza della Morte "in persona", né un film in costume, nonostante l'abbondante e curata cornice medievale con tutte le sue anomalie e contraddizioni, con tutto il suo bigottismo e la sua ipocrisia: potremmo dire che nulla è cambiato, e che quindi l'analisi di Bergman è attuale ora come "allora". 
Altro punto a favore il comparto audio: le musiche "classiche" di un cinema ormai d'un tempo, che deve accompagnare la scena e non sovrastarla o sostituirla, sono di una perfezione quasi imperfetta, anche quando mancano. Le dissolvenze a bianco sono un colpo agli occhi e al cuore: tutto quel nero viene distrutto da ogni dissolvenza, e l'atmosfera del film diventa onirica, quasi fantastica, e le domande aumentano: ma è tutto vero? è solo un sogno del cavaliere? questo sta accadendo davvero? e se fossero tutti morti in mare e questo un delirio premorte? ma la Morte esiste davvero? e Dio?
La morte, come il film, non da nessuna risposta: il finale conclude il racconto, il percorso dei personaggi, senza dare risposte in più rispetto all'inizio; ma una cosa la sappiamo: meglio la morte di un cattivo matrimonio. Il finale lascia lo spettatore con un'allegria beffarda, una gioia finta, imposta dalla Morte stessa, che però non colpisce tutti i personaggi, per ora almeno. I silenzi di Dio sono come le parole non-dette dagli attori o come i silenzi imposti dal regista: tutta un'allegoria, la vita come un film, il film come una vita intera, il regista come Dio, e Dio come l'unico grande regista, sempre che esista.
Le fragole come simbolo di serenità e tranquillità, che torneranno nella filmografia del regista. I saltimbanchi son davvero sfuggiti alla morte?

Ovviamente dopo 60 anni mi son riservato la possibilità di spoilerare tutto lo spoilerabbile, tanto non è un poliziesco che vive della sorpresa o dello stupore dello spettatore.


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